EBREI, ISRAELITI O GIUDEI…?

Ebrei, Israeliti, Giudei: sono i tre nomi che designano un aspetto, una caratteristica del popolo eletto. La parola antisemitismo, che viene utilizzata al giorno d’oggi, non era assolutamente in uso all’epoca: i contemporanei di Gesù sapevano ovviamente di essere Semiti, in quanto discendenti di Sem, il primogenito di Noè, il quale a  motivo della buona condotta verso il padre ubriaco, era stato benedetto con un incontestabile primato, insieme alla sua discendenza. Il termine semita, tuttavia,  non si trova affatto nella Bibbia, ma risale in realtà al 1781, come possiamo leggere nella Treccani: “Il termine semitico (ted. semitisch) fu usato per la prima volta nel 1781 da A.L. Schlözer per designare le lingue parlate dalle popolazioni che un passo biblico (Genesi 10, 21-31) fa discendere da Sem, figlio di Noè. Dalle lingue passò in seguito a indicare anche i gruppi umani che le parlano, assumendo un valore etnologico e antropologico, che ha però scarsa consistenza.” Le parole maggiormente usate erano dunque Ebreo ed Israelita, non certo semita. L seconda a lettera di Paolo ai Corinti 11,22 ci mostra appunto questi due appellativi:

22Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo?Anch’io!

Un figlio di Abramo dunque  si proclama Ebreo ed Israelita, termini affatto sinonimi, ma che evidenziano due realtà diverse, che andremo a vedere. Il nome Ebreo, nella Bibbia, era legato ad un personaggio, Eber, pronipote di Sem (Gen 11,14: Selach aveva trent’anni quando generò Eber, Selach era il nipote di Sem, figlio di Arpacsad). Il nome Eber si collega alla parola Ibri, verbo che significa passare. Questo termine lo troviamo in Mesopotamia, sotto la forma di Habirou, ed in Egitto, in un termine che designava i predatori provenienti dalla Steppa, gli Apiru (o Habiru): dunque, l’Ebreo è colui che “passa”, il viandante (pensiamo ad Abramo, da Ur dei Caldei, ed il grande Esodo condotto da Mosè dall’Egitto alla Terra Promessa). Nel dichiararsi Ebreo, il popolo ricordava l’errare nel deserto, in un significato spirituale talmente profondo da essere ricordato nella festa dei Tabernacoli: la Tenda, segno di cammino, di fatica, ma anche della presenza di Dio che mai abbandona il suo popolo. Veniamo al termine Israele, nome dato dall’Angelo del Signore a Giacobbe, in Gn 32,28: ll  tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto». Giacobbe combatte una battaglia singolare: contuso, con un’anca slogata ma orgoglioso di aver combattuto senza soccombere fino all’alba, il patriarca aveva ricevuto questo soprannome come ricompensa  di una battaglia spirituale, con le forze del destino che ogni uomo deve affrontare nella carne e nell’anima, e che lo stesso popolo, Israele, combatterà per sé e i suoi discendenti. Dunque, essere Israelita significava appartenere ad un popolo che ha affrontato Dio, il cui nome era stato dato da Dio.  Per quanto riguarda il termine giudeo che l’amministrazione romana aveva adottato e generalizzato, quello il cui uso è più diffuso oggi , con un’enfasi che la letteratura antisemita ha reso ingiusto e sgradevole ma che invece aveva anche un ammirevole significato storico e spirituale, risale all’epoca del ritorno dall’ Esilio. La principale tribù i cui membri erano stati deportati da Nabucodonosor a Babilonia fu (insieme a quella di Beniamino) la tribù di Giuda. Erano dunque loro, i “figli di Giuda”, che aveva conservato intatto il tesoro della fede e delle tradizioni ancestrali mentre in Palestina i resti delle altre dieci tribù stavano più o meno cedendo alle tentazioni del paganesimo. Erano tornati in patria e si erano stabiliti in Giudea, che portava il loro nome, intorno alla città santa di Gerusalemme, e avevano lì ristabilito la religione su basi solide ed ortodosse. I giudei  dunque era della tribù di Giuda, erano gli uomini della fedeltà, gli uomini che di ritorno dall’Esilio, avevano mantenuto intatta l’alleanza dei propri Padre. Si tratta di sfumature, sicuramente, ma in queste connotazioni vi è il marchio indelebile di un grande orgoglio religioso, di un senso di appartenenza sicuramente unico al mondo, al cui interno Gesù aprirà tali confini in nome di un’appartenenza più ampia, che supera sicuramente i nostri schemi, per legare i cuori all’Amore per Dio, di cui Lui ci ha mostrato il vero volto.

Pubblicato da Anna

Da sempre impegnata nella pastorale, catechista, mamma e studiosa di teologia spirituale e di cultura cattolica, la Vergine Maria mi ha insegnato ad amare il silenzio, la preghiera, ed a conoscere meglio suo Figlio Gesù. Consacrandomi a Lei, mi sono incamminata sulla strada che porta al suo Cuore Immacolato: nella fede cattolica, la ferma certezza che le porte degli Inferi non prevarranno contro la Santa Chiesa.